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Gerundio

Piccianello e l’Olimpia Basket Matera

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È impossibile comprendere quello che l’Olimpia Basket è stata ed è senza conoscere l’anima e la cultura di Piccianello. Il rione popolare di Matera dove l’Olimpia nasce, dove costruirà i suoi modelli e dove pescherà gran parte dei suoi alfieri. Un fazzoletto di case avvolto intorno allo Stadio XXI Settembre che, a partire dagli anni Trenta, accoglie le prime famiglie che hanno la fortuna di lasciare i disagi della vita nei Sassi. Erano soprattutto semplici e umili contadini che, pur animati da una forte voglia di riscatto, manterranno sempre quello spirito solidale tipico della vita di vicinato delle case scavate nel tufo.

Mio nonno, che Piccianello l’aveva visto nascere diceva: «La vita è fatta di mari e isole. I mari che dobbiamo attraversare per inseguire i nostri sogni e le isole dove troviamo riparo quando non riusciamo a navigare». 

Piccianello era mare e isola insieme. Sapeva essere il porto più sicuro, ma poteva diventare anche l’oceano più tempestoso. Dipendeva da te, da quello che volevi, dalla scelta che facevi. Da un lato lo sport con le sue gioie semplici, le liturgie e tanti sacrifici e, dall’altro, la strada: il campare alla giornata, le scorribande più o meno divertenti e tutto quello di rischioso che quel vivere portava con sé. La droga soprattutto, ma non solo. E quella scelta, sport o strada, determinava il percorso della tua vita.

Io abbracciai lo sport. Prima il calcio. Fu il grande Pietro Corbatto – giocatore e allenatore del Matera Calcio degli anni ’50 – con cui abitavo “porta a porta” a regalarmi un paio di scarpette con i tacchetti e a portarmi sul primo campo di calcio: sport per tutti, da cui passavano tutti. Poi, per contagio (tutta colpa di mio fratello), esplose l’amore per la pallacanestro. Anche questo uno sport di squadra, ma non per tutti. Troppe implicazioni: il canestro, molte regole, tanta tecnica e strategia. E così, da ragazzino di Piccianello desideroso di inseguire la palla a spicchi, la destinazione non poté che essere una: l’Olimpia Basket.

In Africa dicono che per crescere un bambino non bastano i genitori ma occorre un intero villaggio. L’Olimpia diventò subito il mio villaggio. Una grande casa abitata da tanti compagni di avventure, di crescita e di vita.

Impossibile citarli tutti, solo due che non ci sono più: Giovanni Massenzio e Carlo Latorre. Amici unici e indimenticabili. E poi gli uomini, quegli uomini dell’Olimpia: il Grande Giannino Grieco, che da poco ci ha lasciati, Marino Bellacicco e suo fratello, il compianto Michele, Tonio Epifania, Aldo Capozza, Tonino Cifarelli, Michele Di Cuia, Gianni Caragliano, e tutti gli altri sono stati, per noi, prima che allenatori e dirigenti, educatori e guide. A loro ponevamo le domande e chiedevamo i favori che non potevano fare e chiedere a casa.

Ricordo gli anni del liceo: l’età non mi consentiva ancora la patente ma spingeva verso le prime esperienze sentimentali e così, Aldo Capozza, mi cedeva le chiavi della sua Fiat 127 amaranto parcheggiata “ai Pompieri” (la zona poco illuminata nei pressi della Caserma dei Vigili del Fuoco non lontana dalla palestra di via Delle Nazioni Unite) per consentirmi qualche minuto in dolce compagnia dopo l’allenamento serale. Ma prima, mentre mi cedeva il pesante mazzo di chiavi, si raccomandava: «Vedi di non prendere freddo. Quindi dopo la doccia non uscire subito e accaldato. E copriti la testa. E non mettere in moto e non toccare niente». Ovviamente al cospetto di un’ora al caldo dei primi teneri baci la necessità di coprirmi era secondaria, come il bisogno di accendere la vettura, quello che serviva era solo che i sedili andassero giù…

Lo spirito dell’Olimpia diventò presto filosofia tanto di sport quanto di vita. Abbiamo appreso tante nozioni semplici ma utili, poi, negli anni, a risolvere questioni complesse. Abbiamo scoperto il valore della sconfitta: perché maturare la capacità di risorgere dopo una disfatta può essere più importante della vittoria stessa. Abbiamo compreso che competere non significa guardare l’altro con astio e cercare di vincerlo a tutti i costi e con ogni mezzo, ma provare a superarlo contando solo su quello che sappiamo fare. Vincere con lealtà o perdere con onore. Questa era la regola.

Abbiamo anche imparato che la forma non ti porta lontano se non è accompagnata dalla sostanza. Non importava quanto moderne e nuove fossero “le scarpette” o colorati e luminosi “i completi” che indossavamo. Contavano il sacrificio, l’impegno e la voglia che, quasi sempre, come d’incanto, diventavano il vero segreto della vittoria.

Per l’esordio del primo campionato di minibasket l’ordine fu categorico: «Venite con indosso una maglietta bianca». Toccò a Tonio Epifania fare, sul momento, di quelle semplici magliette una divisa sportiva.

L’adesivo bianco e azzurro della società appiccicato, anche con una certa solennità, sul petto e il numero disegnato sulla schiena con il gesso colorato blu. Peccato però che durante la gara con il sudore il numero andava via, così, il povero Tonio, ad ogni “minuto di sospensione”, messa da parte la solennità, surclassata dal grande imbarazzo, provvedeva a ricalcarlo imprecando e sorridendo allo stesso tempo, ma solo perché stavamo vincendo.

Così, Piccianello, proprio grazie all’Olimpia, per molti di noi è stata l’isola dove abbiamo trovato riparo, ma anche la scuola dove abbiamo imparato a superare molti dei mari e delle mareggiate della vita.

Inserito tra i contributi del libro “GLOBULI BASKET” di Giovanni Grieco. Ed. MAGISTER

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