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Futuro

Abbiamo (oggi) bisogno di SINISGALLI. Parola di Biagio Russo

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Leonardo Sinisgalli

Biagio Russo è l’uomo che oggi meglio custodisce il valore autentico dell’eredità di Leonardo Sinisgalli.

Biagio Russo

Ne ha guidato come direttore la Fondazione per due mandati – da volontario, vale la pena sottolinearlo – dopo aver incrociato l’opera del genio lucano all’Università a Salerno, negli anni Novanta. Merito del professore Renato Aymone, che su Sinisgalli aveva basato un corso monografico. Fu una scoperta, in Basilicata non se ne parlava praticamente più. Poi gli studi, l’approfondimento, la ricerca di materiali. Nel 2010 non esisteva la Fondazione, non c’erano collaboratori, non c’erano spazi fisici. «Bisognava costruire ogni cosa e, soprattutto, dare credibilità al progetto. Da allora ogni passo è stato fatto nella direzione di quello che ci eravamo prefissati come obiettivo primario: ripubblicare Sinisgalli».

Il prossimo 2 luglio verrà nominato il nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione Sinisgalli, che dovrà fronteggiare un’eredità importante.

Solo negli ultimi cinque anni la Fondazione – di cui sono soci fondatori la Regione, la Provincia e il Comune di Montemurro, con l’Unibas come socio sostenitore – ha collezionato 15 mostre, 500 incontri pubblici, 333 ospiti, 15 pubblicazioni. Comprese le prestigiose ristampe con Mondadori.

Di Sinisgalli, nel mercato editoriale, non v’era più traccia. Un riconoscimento tardivo?

Da oltre quarant’anni non veniva ristampato, non era presente nelle scuole né sugli scaffali. Ripubblicare le Poesie, i Racconti e il Furor Mathematicus è stato l’apogeo del percorso. Un risultato raggiunto grazie all’erede che ha concesso i diritti, alla BCC di Basilicata che ha assegnato un finanziamento importante e grazie a chi in Mondadori ci ha creduto, tra tutti Luigi Belmonte, responsabile dei Classici, ed Elisabetta Risari, responsabile della Poesia del 900.

Sembra che la ripubblicazione sia arrivata in un momento adatto, in cui siamo tornati a discutere di connubio tra scienza e tecnica.

Sicuramente siamo arrivati al giusto grado di maturazione per riscoprire e riappropriarci di Sinisgalli. Le prime avvisaglie le avevamo avute nel 2009, con la pubblicazione Un Leonardo del Novecento del Centro PRISTEM dell’Università Bocconi: per la prima volta si guardava da un punto di vista critico al Sinisgalli artista, pubblicitario e matematico, oltre che poeta. Da lì ha preso il via un processo di consapevolezza: per comprendere Sinisgalli bisognava coltivare un approccio di osservazione ampia, che con il codice della poesia abbracciava vari settori, dalla pubblicità al documentarismo scientifico, passando per la galassia di relazioni che ha avuto con i grandi protagonisti del Novecento.

Rileggendo le connessioni intellettuali di cui è stato capace Sinisgalli, è impossibile non coglierne l’apertura mentale.

Onestamente non credo esista un altro personaggio che sia riuscito a mettere insieme un cenacolo così variegato: letterati, artigiani, matematici, designer, poeti. Io dico sempre che attraverso Sinisgalli è possibile studiare la bellezza e la complessità del Novecento.

Quale sua lezione la Basilicata dovrebbe recuperare?

Nel 2011 (qui la storia della Fondazione, ndr) la Basilicata ha deciso di individuare in Sinisgalli il personaggio simbolo di questa terra. Non solo per la capacità di coniugare scienza e letteratura, ma soprattutto per aver saputo coniugare passato e futuro. Sinisgalli è l’ideatore di un ingranaggio complesso e perfetto in cui hanno un ruolo sia alcuni aspetti nostalgici del territorio vissuto in maniera epica – il paradiso dell’infanzia, per intenderci – sia il bello dell’industria che alleviava il dolore e la fatica della vita nei campi.

Il dibattito pubblico spesso recupera il bisogno di un nuovo rinascimento, interpretato con consapevolezza digitale.

Con Adriano Olivetti, di cui era amico, ha condiviso il progetto di un umanesimo industriale: significava restituire diritti a chi negli anni Cinquanta, nel fuggire dalle campagne, quei diritti non li aveva maturati. Coglieva la frontiera di un’industria al servizio dell’umanità.

Siamo in grado di andare oltre la narrazione della Basilicata dei campi di grano?

La pandemia ci ha fatto comprendere come ciò che consideravamo un limite, l’isolamento, possa trasformarsi in valore. Ma lo diventa davvero solo se coniugato con la capacità di connettersi con il resto del mondo. L’essere periferia può essere un valore solo se, attraverso le reti infrastrutturali e digitali, siamo capaci di recuperare margini di protagonismo.

Come avrebbe raccolto Sinisgalli questa sfida oggi?

Sinisgalli non esalta mai la tecnologia a tutti i costi, riflette sulle macchine al servizio dell’uomo. In Basilicata non abbiamo aeroporti né treni veloci né strade funzionali, in un mondo in cui, invece, si muovono veloci le merci, le persone e le idee. La pandemia ci ha costretti a recuperare in pochi mesi un gap di arretratezza sul digitale e le reti lungo diversi decenni; alcune buone pratiche vanno migliorate e mantenute. Ecco, mi auguro che non si torni al passato per abitudine.

La spinta è dunque a restare?

No, non significa fermarsi o non esplorare. Sinisgalli era un grande viaggiatore, e ancora oggi ci ricorda che cosa significa stare con l’orizzonte in in Europa, pur mantenendo salde le proprie radici in piccolo paese di Appennino Lucano, rivendicando identità e curiosità.

Come avrebbe raccontato la pandemia di coronavirus?

C’è una sua poesia, 16 settembre 1943, in cui fa un riferimento a un’epidemia, anche se in questo caso causata da un virus diffuso tra il bestiame. Ne parla interpretando i tempi con il presagio della sventura. Ma va compreso il contesto: erano i tempi della seconda guerra mondiale, la tematica del dolore era inevitabile, lo fu per Ungaretti e Montale, lo fu anche per Sinisgalli. Ma va detto allo stesso tempo che Sinisgalli ha sempre cercato di modificare gli eventi, non li ha mai subiti, li ha visti come qualcosa da cui muovere per cambiare le cose.

Come avrebbe interpretato la fase 2 dell’emergenza pandemica?

Avrebbe riflettuto sul recupero in termini di libertà dei grandi spazi di cui disponiamo. Il ritratto tipico del lucano lento, pigro, indolente e poco protagonista va ribaltato. Io credo che i lucani siano etnicamente un popolo, per quanto piccolo, esistente, perché la montagna ci ha forgiati rispetto alle regioni limitrofe. E questo è un vantaggio da rivendicare.

Avrebbe amato questo tempo in cui certi valori, come l’accoglienza o la solidarietà, appaiono indeboliti?

Quando voleva raccontare i valori, anche di questa terra, lo faceva attraverso la poesia. Nei suoi versi c’è sempre un richiamo al riconnettersi con ciò che chiamava la sua tribù: un termine non poetico, ma sociologico. Non coincide con la famiglia, è molto di più, ha un significato più esteso e complesso. Quando descrive le persone che andavano dalla madre a chiedere l’elemosina non le guarda mai con pietà, né le descrive come gli “ultimi” o elementi residuali della società. Anzi, attribuisce loro una funzione necessaria: bussando di porta in porta sono coloro che trasmettono le notizie, liete e tragiche, della comunità.

E che cosa avrebbe detto della Basilicata del terzo millennio?

Sinisgalli saluta la grande industria, ma difende la terra se la sente minacciata. Nella poesia Insegna scrive: «Nessuno la vuole la sapida /scherda, non c’è/ più fame al mondo,/ nemmeno quaggiù/nel sud profondo/di merda». Voleva che le cose cambiassero in termini di umanità, non rispetto agli elettrodomestici disponibili nelle case. Nel 1965 realizza Paese Lucano, un libro fotografico con alcune poesie sue, di Mario Trufelli, Rocco Scotellaro. Quel volume gli era stato commissionato dall’Eni che, giunta in Val Basento per l’esplorazione dei giacimenti di gas, voleva avere a disposizione un dono per i dipendenti e le istituzioni. Sinisgalli confeziona un prodotto in cui dice: questa è la mia terra autentica. E non ci sono tra quelle pagine segni dell’espressione di un’antropologia deteriore, un po’ demartiniana, in cui viene esaltata l’arretratezza attraverso il magismo.

Perché vale la pena affidargli il ruolo di icona della Basilicata oggi?

Della sua terra non si dimentica mai. In Civiltà delle Macchine, una rivista che guardava alle imprese di Ansaldo, Finmeccanica, Fincantieri, coinvolge i ragazzi lucani degli anni Cinquanta, Trufelli, Guerricchio, Riviello. Lo sviluppo era al nord, ma Sinisgalli non ci lasciava isolati.

Andrebbe studiato, quindi, ancora di più?

Da troppo tempo la scuola è ripiegata su stessa, un microcosmo che fa fatica a dialogare con il mondo attorno. La cultura è sempre stata distribuita in chiave filonordica, a causa di una variegata serie di fattori. Al nord ci sono fondazioni, centri economici. L’editoria, inoltre, ruota attorno a Milano e forse tende a guardare alle voci limitrofe. Abbiamo sempre aspettato che qualcuno ce lo dicesse per credere negli autori a noi vicini. Certo, poi se un personaggio è grande lo decide la critica, ma almeno dobbiamo creare le condizioni, a partire da un curriculum differenziato nelle scuole. Mi sono stupito ogni volta che l’Università Bocconi o il Politecnico di Torino hanno investito su Sinisgalli con pubblicazioni e ricerche, sono arrivate richieste di collaborazioni dalla Liguria. Devono dirci gli altri quali sono i nostri punti di riferimento culturale. La letteratura meridionale è stata a lungo boicottata. E le nostre università dovrebbero fare di più, ci sono ampi margini. Con la rettrice Aurelia Sole, l’Unibas, devo dire, ha assicurato una presenza importante. Certo, possiamo fare tutti di più. Del resto un personaggio eclettico come Sinisgalli permette di lavorare sugli snodi, sui margini di contatto tra le discipline.

Se dovesse lasciare un appunto per il prosieguo?

Senza dubbio continuare a pubblicare Sinisgalli. Magari l’edizione completa di Civiltà delle Macchine.

Ecco, magari.